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Comune di Roma
Dipartimento XIV
The Global Prehistory Consortium at EURO INNOVANET
 La scrittura è nata in Europa?
di Marco Merlini
INTRODUZIONE

Potrebbero le origini della scrittura essere molto più antiche di quanto in genere si creda? Potrebbero cioè affondare le radici nell’ultima fase dell’età della pietra, ossia nel neolitico? E potrebbero, infine, essere molto più vicine geograficamente, precisamente nell’Europa sud-orientale?
      Sulle rive del Danubio, 7.500 anni fa fiorisce una civiltà che non sfigura rispetto a quelle tradizionalmente riconosciute come le prime complesse architetture sociali e culturali dell’umanità: Mesopotamia, Egitto, valle dell’Indo e Cina. La Civiltà del Danubio è fra le più importanti dell’antichità e, per alcuni aspetti, sembra precedere le altre.
Alcuni studiosi stanno avanzando l’ipotesi che addirittura sviluppi una propria scrittura ben 7.000 anni orsono, oltre un millennio e mezzo prima dei geroglifici egizi e del cuneiforme sumero: la scrittura del Danubio (Danube Script). La stupefacente esistenza di un’antica scrittura europea e la sua comparsa in anticipo rispetto all’Egitto e alla Mesopotamia non è affermata da amateur visionari o da ricercatori affamati di scoop. È sostenuta da pacati cattedratici, responsabili di dipartimenti di archeologia in università prestigiose, stimati curatori di musei, linguisti insigniti di premi internazionali, direttori di autorevoli riviste specializzate. Se l’orizzonte storico che sto delineando viene ampiamente discusso nei congressi internazionali per addetti ai lavori e inizia a essere reso noto da divulgatori del calibro di Richard Rudgle (autore tra l’altro della serie storica su Discovery Channel), non trova però riscontri nei libri scolastici, nei manuali universitari sulla preistoria e neppure nella pubblicistica divulgativa. Prodotto sorprendente dell’età della pietra, il Danube Script mina le convinzioni consolidate circa l’avventura umana della scrittura e i percorsi della storia eurasiatica, per arrivare addirittura a ridefinire l’idea stessa di “civiltà”. Lo scenario di un’area europeacon un passato remoto culturalmente molto più sviluppato di quanto siamo in genere a conoscenza possiede infatti un’enorme potenza evocativa. Fin da bambini, diversi metri di libri sull’avventura umana della scrittura ci hanno infatti convinto che la nostra civiltà – scandita dal passaggio dalla preistoria alla storia proprio grazie alla conquista dell’abilità di leggere e scrivere – sia nata non prima di 5.000 anni fa, in Asia occidentale o in Africa nord-orientale. Dovremmo infatti ringraziare la sagacia con cui sumeri ed egizi hanno saputo rispondere alle esigenze economiche e amministrative delle loro città Stato e dinastie regali. L’ars scribendi – al pari di altri elementi civilizzanti quali l’urbanesimo, l’allevamento e l’agricoltura – si sarebbe successivamente irraggiata verso l’Occidente e l’Estremo Oriente. Questa invenzione piuttosto recente, si sostiene, non avrebbe nulla a che vedere con popolazioni “primitive” che, in tempi molto più lontani, sarebbero state indaffarate a sopravvivere alla meno peggio in Europa. Popolazioni che di pietra non avrebbero solo gli utensili ma anche la testa, vestirebbero pelli sformate, amerebbero scarabocchiare sulle pareti delle caverne e sarebbero intente in riti superstiziosi e magari cannibali.
      All’interno di una più generale rivalutazione delle culture precedenti l’età del bronzo, il punto di vista emergente considera invece la scrittura del Danubio uno dei pilastri di una civilizzazione neolitica ed eneolitica (il periodo in cui si afferma il rame ma continua anche l’uso della pietra) di alto profilo e che contempla un’agricoltura dotata di tecnologie avanzate quali l’aratro e l’irrigazione, commerci con rotte di migliaia di chilometri, lavorazione del rame e dell’oro, ceramica di elevata qualità, “industria” tessile, tecnologia navale, città con decine di migliaia di abitanti, conoscenze geometriche e numerologiche, cognizioni mediche e astronomiche, un’articolata stratificazione professionale, solide istituzioni regionali nella forma di reti e leghe fra i diversi centri abitati. Fin dall’ottavo millennio, lungo il corso medio e finale del Danubio sono dunque presenti tutti i fattori – tranne lo Stato e il potere regio – che gli storici sono usi additare per le grandi civiltà del mondo antico.
      Sarà necessario mettersi d’impegno per riscrivere il racconto di come siamo divenuti homo scribens? Così come l’intera storia europea?
      La posta in gioco è alta, troppi gli assunti consolidati che vanno in pezzi. Meglio procedere con i piedi di piombo. L’esistenza di questa scrittura si basa su una documentazione davvero attendibile? Se è vero che il quadrante sud-orientale dell’Europa ha sviluppato una propria scrittura in un’epoca tanto remota, perché questo avvenimento tanto straordinario continua a essere sottovalutato quando addirittura non ignorato da buona parte degli archeologi e degli storici? Viceversa, è possibile che stimati studiosi siano stati tanto ingenui da mettere a repentaglio con leggerezza la loro carriera parlando di homo scribens vetero- europeo? In una parola: è con la forza di prove documentarie o solo con la suggestione dell’immaginazione che la scrittura della pianura del Danubio riempie una reale debolezza da parte dell’archeologia sul mistero dell’origine della civiltà? Per l’esistenza del Danube Script esiste già la “prova finale”? La stiamo ancora attendendo? Non ci sarà mai?
      In questi intriganti quesiti mi sono rigirato per tre anni. Le risposte potrebbero rivoluzionare il corso della preistoria e con esso le fondamenta e l’identità culturale europea: solo ora stiamo infatti intuendo che la Civiltà del Danubio ha lasciato un’impronta duratura nella cultura del Vecchio Continente.
      Spazientito di raggranellare polvere nelle diverse biblioteche, scettico ma affascinato dalla possibilità che siano esistite forme di scrittura nel neolitico ed eneolitico balcanico-danubiano, ho messo in moto la mia esperienza di giornalista svolgendo un Grand Tour nell’Europa orientale, fra il 2001 e il 2003, per verificare di persona la documentazione esistente. Macinando migliaia di chilometri, ho visitato siti archeologici, interrogato professori universitari e singoli ricercatori, setacciato le vetrine (a volte anche i sotterranei e i sottoscala) dei musei, verificato sotto la lente gli oggetti incisi con segni che davano l’idea di iscrizioni. Un Grand Tour tra indizi labili, tracce lasciate da archeologi vissuti magari un secolo e mezzo fa, reperti dispersi su mezzo continente quando addirittura non scomparsi nel mercato nero, referti spesso e volentieri lacunosi. Un’esplorazione resa possibile dall’essere riuscito a inserirmi come giornalista nelle nuove strade internazionali di collaborazione fra studiosi che, dopo il gigantesco naufragio della produzione culturale avvenuto nel blocco sovietico durante la guerra fredda, si sono schiuse con il processo di allargamento a oriente dell’Unione Europea.
      Non ho giocato al rabdomante. Semplicemente, la spinta degli interrogativi man mano accumulati mi ha portato a reperire le informazioni direttamente alla fonte. E infine mi sono trovato immerso in qualcosa che articoli e volumi non possono dare: interrogando uno studioso o investigando su un oggetto “portalettere”, spesso mi sono imbattuto in informazioni inedite e inaspettate.
      Ciò nondimeno, è stata una caccia che mi ha forzato a divenire paziente. I reperti con segni che possono ricordare una scrittura sono per lo più sconosciuti in Occidente. Quasi impossibile sapere quali sono, come sono fatti e dove sono conservati. Nei paesi danubiani sono dispersi in centinaia di collezioni e giacciono sovente nei magazzini dei musei, nei depositi delle università quando non addirittura nei cassetti degli archeologi che li hanno rinvenuti. Più di una volta ho questionato con il direttore di una collezione, perché gli chiedevo di prendere in visione un oggetto che sosteneva di non possedere. E a volte purtroppo ha avuto ragione lui: diversi “libri d’argilla” sono scomparsi negli anni passati e intere collezioni sono addirittura evaporate nel vortice dell’ultima guerra balcanica. La mia ricerca sul Danube Script ha dovuto quindi fronteggiare enormi perdite di documentazione. Una scomparsa tanto vasta e radicale che in questi ultimi anni abbiamo rischiato di dimenticare perfino l’esistenza di questa antica scrittura europea, mentre era una nozione scontata per gli archeologi dei primi del Novecento.
      Questo libro è quindi un rapporto di viaggio. Forse di pellegri-viaggio. Un resoconto che ha l’intento di mettere alla portata del grande pubblico i ritrovamenti degli ultimi scavi, esporre i risultati dei più recenti studi archeologici e semiologici e presentare gli studiosi impegnati nella ricerca sul Danube Script e i loro metodi d’investigazione. Quelle che ho avuto con questi autori non sono state chiacchiere fugaci e superficiali. In media, ho realizzato interviste di mezza giornata, a volte addirittura per tre giorni di fila, fino alla rivolta del mio intervistato. Me ne scuso profondamente, ma non mi pento. Diversi miei interlocutori sono famosi. Altri lo diventeranno. Tanto vale quindi che il lettore sfrutti l’opportunità di farne la conoscenza “in anteprima”.
      I colloqui con questi studiosi mi hanno spalancato finestre su quella che viene definita la “Civiltà del Danubio” perché si è sviluppata lungo il sistema di corsi d’acqua, laghi, delta alluvionali e paludi che fanno perno su questo grande fiume e sui suoi affluenti. Il Danubio è il fiume che ha favorito la nascita di questa civiltà antica e che simboleggia, con il corso sinuoso e la corrente lenta e fremente, il divino femminile allora venerato. Orizzonte liquido, utero di antenati mitici, acque feconde, limo umido e fertile, corrente protettiva, arteria commerciale, via d’immigrazione ma anche di fuga: a partire dalla metà dell’ottavo millennio, e per ben venti secoli, lungo questo immenso fiume tutto europeo si sviluppano villaggi rurali che ospitano contadini, religiosi, guerrieri, mer-canti, artigiani uniti da una stessa matrice culturale. Essi condividono, oltre al sistema di scrittura, le credenze religiose, i riti funerari, i simbolismi culturali e probabilmente la stessa lingua, con più o meno accentuate differenze dialettali. Simili appaiono anche i modelli istituzionali e le strutture sociali: una stratificazione sociale in embrione e che solo in parte si traduce nella gerarchia politica che siamo abituati a riconoscere nel periodo storico, villaggi connessi fra loro in confederazioni di mutuo sostegno e reciproche convenienze, una religione che detta le regole della comunità. I villaggi sono costruiti con le stesse piante e regole. Prosperano per strati successivi, edificando le case sulle fondamenta di quelle precedenti. Comuni sono la forma delle abitazioni, lo stile dei manufatti e la produzione artistica. Condivisa è una rete commerciale, che si spinge fino all’Europa settentrionale e alla Mesopotamia, attraverso cui vengono scambiati anche beni di pregio e status symbol.       Mentre egiziani e mesopotamici investono le loro migliori energie per erigere monumenti maestosi ai loro sovrani e templi magniloquenti per i loro dei, la Civiltà del Danubio non lascia tracce grandiose. I suoi abitanti, liberi da un’eccessiva reverenza verso le gerarchie terrestri e divine, si dedicano alla produzione artigianale di alto livello, rubano tra i primi il segreto del metallo alla terra, venerano l’amplesso divino e idoli femminili in case-santuario, concentrano le energie sulla crescita del raccolto e sull’allevamento del bestiame, vivono entro l’orizzonte di un villaggio rurale e della famiglia, dei discendenti da un comune capostipite mitico e degli altri nuclei domestici con cui condividono il cortile.
      La Civiltà del Danubio è la più misteriosa fra tutte quelle che sono prosperate lungo il corso dei grandi fiumi, perché fiorisce nel passato remoto dell’età della pietra e perché una convergenza di ragioni sfavorevoli l’ha resa per lungo tempo invisibile ai nostri occhi. La sua scarsa propensione per la maestosità l’ha resa invisibile alla concezione storica predominante, abituata ad assegnare a un consorzio umano la patente di “civiltà” più sulla base del tasso gerarchico delle istituzioni che del livello culturale. Fino a non molti anni fa, la divisione dell’Europa in blocchi avversari ha significato l’erezione della cortina del silenzio sulle grandi eredità culturali dell’inquieto Est. Così, da cinque millenni, le rovine in gran parte ancora sotterrate dei villaggi del Danubio continuano a custodire i segreti di una civiltà che fiorisce in una vasta area e pare scomparire repentinamente. E che forse ha anche sviluppato la prima scrittura europea conosciuta.
      Questo libro è stato possibile grazie alla passione e alla pazienza di molte persone e organizzazioni che ringrazio in apertura di bibliografia.
      Non posso però esimermi fin da subito da tre sentiti ringraziamenti.
      Il primo va a una stimata pittrice torinese, Daniela Bulgarelli, che ha accettato di studiare e mettere in evidenza i segni che appaiono sugli oggetti portalettere. Un accorgimento da micologo: si impara a riconoscere con precisione i funghi non tanto sui manuali corredati da foto, ma soprattutto su quelli supportati da disegni che ne sottolineano i tratti distintivi. Di Daniela Bulgarelli sono le illustrazioni a colori a corredo del presente volume.
      Il secondo va al collettivo di grafici di Planetcom che sta appassionatamente lavorando al sito web del Prehistory Knowledge Project (www.prehistory.it).
      Il terzo ringraziamento va a zio Demo che, tanti anni dopo la sua morte, mi ha spinto alla caccia degli indizi su questa scrittura proto-europea facendomi arrivare gli appunti che aveva steso sul campo e un cuoricino d’argilla che porta un’iscrizione. Attendo presto sue nuove...

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